di tessuti e studiare armature di stoffe, Anita legge due manuali editi da Hoepli, di Oscarre Giudici e Pietro Pinchetti, del 1904 e 1910. Ne “L’arte decorativa contemporanea” di Carlo Carrà, del 1923, si sofferma sulla sezione arazzi, pannelli, tappeti, merletti, dove l’autore parla di Fortunato Depero, di Rosa Menni Giolli, maestra delle arti decorative applicate alle stoffe, del designer e architetto Marcello Nizzoli e dell’Associazione del Batik di Trieste fondata dalla pittrice Maria Lupieri. Tra queste pagine è conservato il suo primo monogramma “AP”, sotto forma di ex libris.
Dello stesso anno è un’altra opera consultata da Pittoni, “Le arti a Monza nel MCMXXIII” di Roberto Papini, dove sottolinea i passi dedicati a Depero, alle sete di Guido Ravasi, ai velluti di Lorenzo Rubelli e agli arazzi di Vittorio Zecchin. Nel numero monografico di “Noi. Rivista d’arte futurista”, ancora del ’23, studia i cuscini e i pannelli di Depero e Valente. Nel 1925 visita la Seconda internazionale delle arti decorative a Monza, di cui acquista il catalogo, mentre per approfondire la lavorazione dei cuscini in panno consulta quelli della ditta torinese Lenci degli anni ’26 e ’28. Infine, quando si avvicina al mondo delle navi nel 1932, si fa donare da Ernesto Nathan Rogers il volume di Anselmo Bucci, “Arte decorativa navale”.
Nella biblioteca Pittoni trovano spazio tutte le novità editoriali dell’epoca in materia di interior design. Negli scaffali anche volumi d’arte e i cataloghi della mostra del Novecento Italiano di Margherita Sarfatti del 1926 e 1929. La “pittrice dell’ago”, come la chiamava Bragaglia, è curiosa e attenta alle uscite. Legge, sfoglia, si imbeve di immagini, colori, grafismi. Assorbe come una spugna.
Se si potesse dunque idealmente allargare la foto in cui Anita Pittoni dice di aver uncinettato il golfino perfetto sotto casa delle amiche Wulz, nell’inquadratura entrerebbero Carrà, Depero, la moda femminile dei futuristi, teorizzata nel manifesto di Volt (il poeta Vincenzo Fani Ciotti), la stessa Sarfatti. Era il mondo dell’arte che le offriva spunti per disegnare il moodboard delle sue collezioni. Anita lo faceva, e spesso lo credeva, tutto ed esclusivamente suo.